Il margine del foglio
Il professor Matteo Orsini aveva 47 anni, e da venti insegnava letteratura contemporanea all’università. Era uno di quelli che ancora sottolineava i libri con la matita, beveva caffè amaro e spiegava Montale come se ogni verso gli avesse attraversato la pelle. La sua aula era un rifugio di carta e silenzio, con le finestre sempre aperte anche d’inverno e la voce bassa che costringeva gli studenti ad ascoltare davvero.
Poi un giorno, tra i volti anonimi del primo anno, arrivò lei.
Elena. Ventidue anni. Silenziosa, attenta, occhi che sembravano leggere anche quello che lui non diceva.
Non parlavano mai, se non per qualche domanda timida alla fine della lezione. Ma Matteo si accorse che aspettava quei piccoli scambi più di quanto avrebbe voluto ammettere. E lei, ogni volta, restava qualche secondo in più del necessario, come se avesse ancora una cosa da dire — ma non la dicesse mai.
Una mattina, tra i compiti consegnati, trovò un foglio piegato in quattro. Non firmato. Non era un tema, ma un pensiero:
“Ci sono persone che ti entrano dentro non per quello che fanno, ma per come ti fanno sentire mentre stanno zitte.”
Non era difficile immaginare da chi venisse.
Non rispose, non commentò. Ma iniziò a guardarla diversamente. O meglio, iniziò a concedersi di guardarla come già faceva.
Le settimane passarono. Il confine era chiaro: lui docente, lei studentessa. Ma le emozioni non rispettano mai i regolamenti.
Un giorno, dopo la discussione di un saggio particolarmente brillante che Elena aveva scritto, Matteo le chiese se poteva restare un momento. Lei lo guardò senza sorpresa, come se sapesse.
«So che dovrei ignorare questo… ma non lo so fare.»
Lei sorrise, non sorpresa, ma serena.
«Lo so. Nemmeno io.»
Non fu un inizio convenzionale. Non potevano vedersi all’università, né camminare fianco a fianco. Ma fuori da quel mondo, nei weekend e tra le pagine dei libri, iniziarono a conoscersi davvero. Lei gli portava caos e domande, lui risposte lente e carezzevoli.
Non era uno sbaglio. Era una possibilità fuori tempo, ma nel tempo giusto per entrambi.
Dopo la laurea di Elena, si concessero la libertà di vivere ciò che era nato tra le righe di una lezione. Nessuno scandalo, solo la bellezza di un amore nato piano, con rispetto e senza pretese.
E quando anni dopo lui rilesse ad alta voce Montale in una conferenza pubblica, la vide in fondo alla sala, seduta tra gli altri, con lo stesso sorriso di quando era una studentessa.
Solo che ora, tra di loro, non c’erano più confini. Solo vita.
Non torno più.
Non perché non ti abbia amato.
Ti ho amato anche quando non sapevi vedermi,
anche quando io crollavo in silenzio
e tu restavi fermo.
Non torno più
perché ho imparato a riconoscere
quando un amore fa più male che bene,
quando un’attesa diventa prigione
e una speranza si trasforma in stanchezza.
Non torno più
non perché ho smesso di sentire,
ma perché ho cominciato a sentire me stessa.
Ci ho provato.
Ho lottato anche quando era più facile andarsene.
Ti ho cercato in mille piccoli gesti
ma tu eri altrove,
forse con la testa, forse con il cuore.
E ora che ho trovato la mia voce,
ora che ho imparato a respirare da sola,
non posso più tornare
dove ho imparato a mancare a me stessa.
Non è rancore,
è rispetto.
Per me.
E forse, anche per quello che eravamo.
Luca
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