Effetto farfalla

“Hai mai sentito parlare di questo Butterfly Effect?”, mi chiese John sfogliando svogliatamente una rivista mentre era in piedi davanti alla finestra dell’ufficio.
“No”, risposi, “cos’è?”.
“Si tratta di una teoria, dalla quale è nato anche un film che ha proprio questo nome, secondo la quale il battito d’ali di una farfalla possa provocare un uragano dall’altra parte del mondo”.
“Che idiozia!”, mi affrettai a dire sorridendo alla frase che aveva appena ascoltato.
“Sarà”, disse John un po’ perplesso, “ma probabilmente qualcosa di vero c’è”.
“Nelle ali leggere di un insetto che riescono a provocare catastrofi in altre parti del mondo?”, chiesi io quasi a volerlo deridere.
“Un uragano, non catastrofi”, mi apostrofò lui quasi con stizza, a voler intendere che le catastrofi sono unicamente quelle causate dall’uomo. Poi continuò: “Forse è vero che siamo tutti estremamente interconnessi, anche quando non lo crediamo possibile, soprattutto quando non lo crediamo possibile. Una nostra azione può cambiare le sorti nostre e di chi ci circonda, non necessariamente arrivando all’uragano della farfalla”.
“Un po’ alla Sliding Doors?”, chiesi allora io per capire dove volesse andare a parare.
“Sì, esattamente”, rispose a chiosa di questa strana conversazione.

Il momento di tranquillità era finito ed eravamo già pronti per riprendere il nostro tour de force. Stavamo aspettando un’importante telefonata da parte di una società estera che avrebbe collaborato molto probabilmente con la nostra azienda per un importante appalto. I tempi erano stretti e l’ansia che l’accordo si concludesse nel migliore dei modi era decisamente tanta.
Solitamente era John ad occuparsi dei contatti con l’estero. Parlava le lingue meglio di me e sapeva snocciolare questioni complesse in un batter d’occhio. All’improvviso fu chiamato dalla moglie che gli chiese di raggiungerlo a casa. La loro bambina era caduta e probabilmente si era provocata una distorsione. Dovevano andare al Pronto Soccorso ma lei non se la sentiva di arrivarci da sola.

Uscito velocemente dall’ufficio, mi resi conto che aveva dimenticato il cellulare sulla scrivania in mezzo a decine di documenti ancora da archiviare. Non riuscii a fermarlo così rimasi lì in attesa di una telefonata alla quale non avrei saputo cosa rispondere ma che era importante che arrivasse quanto prima.
Il telefonino di John prese a squillare poco dopo. Sul display un numero incomprensibile. Lasciai squillare credendo si trattasse di uno di quei soliti call center che disturbano ad ogni ora del giorno.
Mi buttai nuovamente a capofitto nel mio lavoro arretrato quando improvvisamente il cellulare del mio collega distratto riprese a suonare. Il numero era lo stesso di poco prima.
Deciso ad evitare di essere disturbato ancora, risposi con un seccatissimo “pronto”. Dall’altra parte una voce femminile, fresca e giovane mi rispose: “Sì, buonasera. Sono Grace Haverton della Frt Society. Parlo con John McBriant?”. Mi raggelai. Era la telefonata che stavamo aspettando. Ed era arrivata sul cellulare di John anziché in ufficio
“Sì, cioè no”, risposi allora confusamente.
“Sì o no?”, disse allora, un po’ spazientita, la voce all’altro capo del telefono.
“Sì perché questo è il numero del signor McBriant e no perché non è lui questo momento a risponderle”. Mi resi conto che la lucidità era fondamentale in quel momento e dovevo evitare di mandare all’aria tutto.

Lei, stranita, mi ascoltò e lasciò che le spiegassi la situazione. Le dissi anche che poteva parlare anche con me, benché non fossi il responsabile del progetto ma il suo più stretto collega. Solo a quel punto mi resi conto che la fresca voce dall’altra parte di questa strana telefonata parlava la nostra lingua alla perfezione e questo mi diede nuova sicurezza per portare avanti la trattativa.

“Preferirei un incontro di persona, se possibile”, disse allora lei. Un po’ spiazzato, ma ormai deciso ad evitare passi falsi, le confermai la mia massima disponibilità e decidemmo di incontrarci quella sera stessa.
Passai velocemente da casa per darmi una sistemata e guardandomi allo specchio mentre aggiustavo il colletto della camicia bianca, mi resi conto che stavo immaginando come potesse essere questa donna in affari con la quale avevo scambiato solo poche parole per telefono.
“Cretino”, mi dissi subito dopo, “pensa a lavorare che di complicazioni non ne hai bisogno!”.

Non mi preparavo così bene per un’uscita ormai da mesi e, a dire il vero, da molto più tempo pensando che quello era semplicemente un incontro di lavoro, anche abbastanza tosto. Uscendo dimenticai distrattamente sul tavolino all’ingresso la cartellina con tutti i documenti da farle visionare.

Arrivato nella hall dell’hotel dove aveva prenotato, chiesi subito al receptionist della signora Haverton. Dopo la consueta chiamata in camera, l’addetto mi rispose col suo solito sorriso di circostanza “sarà qui tra pochissimo. Può aspettarla nel salone in fondo”.
Andai a sedermi e dopo davvero pochi minuti la vidi arrivare quando le porte dell’ascensore in fondo al corridoio si aprirono. Avrebbe potuto essere chiunque eppure ero certo che fosse lei. Capelli di un particolare biondo che virava verso il rosso, carnagione molto chiara, fisico decisamente sexy, un tailleur estremamente elegante a cingerle vita e fianchi lasciando scoperti i bianchi e sottili polpacci, camminata decisa e sinuosa e scarpe nere dal tacco vertiginoso. Non so spiegare il motivo, ma appena la vidi arrivare provai un misto di soggezione e piacere, quasi come se quell’incontro di lavoro fosse per me in quel momento l’ultimo dei pensieri. Mi ridestai in fretta da questa stupida idea mentre ormai era arrivata davanti a me, con la sua mano protesa per stringere la mia.
“Molto piacere, Grace Haverton”.
“Rob Reddington”, dissi alzandomi al suo cospetto stringendole a mia volta la mano, “il piacere è tutto mio”.

Accomodatici sulle comode poltrone del salone ed ordinato un drink, Grace iniziò subito ad addentrarsi nel vivo del motivo del nostro incontro, spiegando nel dettaglio la collaborazione da effettuare e le condizioni contrattuali. Sembrava che non le interessasse minimamente la presenza di un uomo di fronte a lei. Parlava sicura, senza tentennamenti, guardandomi negli occhi senza alcuna timidezza.
“Ok, non le piaccio”, pensai. Ma poi mi dissi: “stupido, non sei lì per questo!”. Eppure non riuscivo a smettere di pensare che fosse terribilmente affascinante.
Credo che la mia sciocca idea di andare oltre il discorso professionale stesse togliendo un po’ di lucidità al mio operato visto che dopo qualche minuto Grace mi chiese se fosse tutto ok, se fossi stanco e magari avessi intenzione di riprendere quell’incontro in un altro momento a me più congeniale. “No, assolutamente no”, mi affrettai a rispondere, convinto stavolta a smetterla di fantasticare.

Fu poco dopo che mi chiese quindi i prospetti realizzati da me e John per poi procedere al contratto. Sorridente come non mai, feci un movimento rapido per prendere la cartellina e mi resi conto di non averla. Di non averla mai avuta con me quella sera. Notai nel volto di Grace una leggera smorfia di disappunto e mi offrii subito di andare a casa a prenderla o, se le andava di fare due passi, di accompagnarmi a prenderla.

Questa seconda proposta la turbò infatti dalla prima volta dall’inizio della serata, abbassò lo sguardo arrossendo e mi rispose che non era necessario e che avremmo potuto riaggiornarci il giorno dopo. Lei era molto stanca e preferiva andare a letto.

Mi salutò frettolosamente e andò via. Rimasi stupito da quell’atteggiamento così diverso da quello sicuro che avevo visto per tutto il tempo insieme.
Scontento per come avevo gestito l’intera situazione, mi avviai verso casa pensando che John avrebbe sicuramente avuto da ridire. Appena varcata la soglia, vidi quella maledetta cartellina e fui preso da qualcosa di improvviso che mi spinse a prenderla e tornare in hotel.

Avrei fatto sicuramente una figuraccia facendola chiamare in camera dal receptionist e probabilmente questo atteggiamento così audace e forse maleducato avrebbe mandato all’aria l’affare ma ero intenzionato a fare così.
Arrivato poco distante dall’ingresso principale dell’hotel, notai lungo il marciapiede una figura di spalle molto simile a quella di Grace che camminava coperta da un soprabito stretto in vita. Bella pure tutta coperta, pensai sorridendo.

Scesi dall’auto e la raggiunsi correndo. Arrivato a lei, quasi svenne dallo spavento che le avevo provocato. “Che ci fa lei qui?”, disse subito dopo essersi ripresa.
“L’ho vista passeggiare e l’ho aggiunta. Poi ho qui i documenti che servivano…”.
“Ma non aveva detto di averli lasciati a casa?”
“Si, ma sono andato a riprenderli e sono tornato velocemente”
“Ma io le avevo detto di riaggiornarci a domani”
“Si, ma mi aveva anche detto che sarebbe andata a dormire”
Neanche il tempo di terminare quella frase che mi resi conto di aver esagerato davvero.
“Le chiedo scusa”, dissi allora con tono sommesso abbassando lo sguardo.
“Non si preoccupi”, disse allora lei sorridendo e toccandomi l’avambraccio con quella sua mano esile è chiara, “ha ragione. Le va di fare quattro passi assieme?”.
“Si, ma solo se possiamo darci del tu”
“Va bene”, mi rispose allora lei sorridendo di nuovo.

Passeggiammo credo per un’ora parlando fitto fitto di tutto. Era assurdo come fossimo entrati in confidenza e come fosse piacevole parlarle di me, scoprirmi, farle vedere aspetti del mio carattere che difficilmente amavo condividere, anche con amici di vecchia data.
Terminata la passeggiata, era arrivato il tempo dei saluti fuori all’hotel. Un po’ impacciati, dopo aver pensato che stringersi la mano fosse ormai un gesto troppo freddo, ci avvicinammo per un più amichevole bacio sulla guancia. Fu allora che, preso dal mio solito lato istintivo che quella sera non aveva smesso di farmi compagnia, decisi di spostare il volto e di baciarla. Lei mi lasciò fare, anzi si avvinghiò a me abbracciandomi forte. Fu un bacio lungo, intenso, come quelli che spesso si vedono nei film romantici che noi uomini praticamente odiamo.

Rimasi lì, fermo, a guardarla quasi incredulo. Mi sembrava più bella di prima, quasi che quel bacio le avesse completamente tolto di dosso quell’immagine di donna fredda e scostante che tanto amava usare nel lavoro.
Lei sorrise incuriosita dal mio sguardo, mi posò un fugace bacio sulle labbra e mi disse semplicemente “a domani”, lasciandomi lì quasi inebetito.

Tornando a casa pensai che molto probabilmente non avrei avuto modo di vivere un incontro come quello se John non avesse distrattamente lasciato il suo cellulare in ufficio, se io non avevi deciso di rispondere a quella chiamata e se non avessi accettato di incontrarla per definire i termini dell’accordo. Quanti se nella mia testa? E se l’effetto farfalla di cui mi aveva parlato John fosse davvero c’entrato qualcosa? Ecco, un altro se…

Passai una notte quasi totalmente insonne pensando a quella serata, alle sue labbra, a quello sguardo così diverso e dolce rispetto alla donna tutta d’un pezzo che solo poco prima mi si era parata davanti in tutta la sua eccitante bellezza.
Non capivo cosa mi stesse capitando. Ero single ormai da diverso tempo e non mi era mai sembrato in tutti quei mesi di aver bisogno di qualcuno accanto. Non mi sentivo solo, ecco. Eppure con lei mi sentivo meglio.

La mattina successiva arrivai in ufficio prima del solito. Volevo riuscire a scambiare quattro chiacchiere con John e raccontargli tutta la bizzarra storia della serata appena trascorsa. Quando seppe tutto, quasi non mi aggredì. Si era risentito del fatto che avessi preso tutta questa iniziativa e che, sicuramente, avremmo perso la commessa grazie al mio temperamento da “giovane in piena crisi ormonale”. Mi chiamò proprio così.
Mi risentii di quelle parole ma lui non arretrò minimamente. Fu quando vide arrivare in ufficio Grace che cambiò totalmente espressione e si lanciò verso di lei, quasi ad evitare che io potessi, anche solo con un semplice buongiorno, combinare chissà quali casini.

“Mi scusi per ieri, signora Haverton”, disse subito John stringendole la mano dissimulando il suo evidente nervosismo con un sorriso a 32 denti.
“Si figuri, signor McBriant”, disse lei pacatamente. “Il suo collega l’ha sostituita egregiamente. Anche io, sa, non dovevo essere lì ieri per quell’incontro di lavoro. Ho sostituito il nostro capo, Bruce Haverton, mio padre. Sa, aveva preso un brutto malanno e di certo una trasferta non era immaginabile. Spero di essere stata anche io degna delle vostre aspettative”, concluse guardandomi sorniona con la coda dell’occhio.

Io ero basito. Né io né lei dovevamo essere lì la sera prima. Al nostro posto avrebbero dovuto esserci suo padre ed il mio collega, a bere uno scotch mentre dei noiosissimi discorsi di lavoro avrebbero riempito tutto il loro tempo.
E invece c’eravamo lei ed io, lei con quella sua bellezza timida mascherata da freddezza e distacco, io come l’eterno impacciato dominato dall’istinto.

John e Grace si allontanarono allora spostandosi in sala riunioni dove il nostro capo li attendeva per le ultime firme.
Rimasto solo alla scrivania, presi un post-it e scrissi di getto una frase. Non appena la riunione terminò, Grace mi prese in disparte.

“Mi dispiace per ieri. Spero sia tutto ok con i tuoi superiori”.
“Assolutamente sì”, la tranquillizzai.
“Adesso devo andare”, disse lei indossando i grandi occhiali scuri.
“Prima prendi questo”, dissi, “portalo con te ed aprilo appena potrai”.
Mi guardò incuriosita ma non fece domande. Mi sorrise, mi baciò velocemente sulle labbra badando che nessuno ci vedesse e si allontanò.

Fuori, in strada, in attesa del taxi, Grace aprì quel piccolo foglietto giallo e cominciò a leggere.
“Lo sapevi che il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo? Non c’è che dire… dopo una vita vissuta un po’ a caso, tu sei il mio butterfly effect”.

Lei sorrise. Ed era bellissima. Aveva tutti i colori dell’arcobaleno negli occhi. E nelle mani, un fogliettino simile ad ali di farfalla.

Angela M.

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