Ago e fili

Quel giorno non volevo vedere nessuno. Ero di pessimo umore ed il motivo aveva due occhi, un naso, una bocca e soprattutto un nome.
Ogni litigio rappresentava per me un momento di profonda angoscia, di dolore, di rabbia. Non era più tanto la questione di capire dove fosse la ragione e dove il torto quanto l’idea, per me neanche tanto remota, che potesse finir tutto. D’improvviso, senza possibilità di recuperare.

Avevo sempre voglia di starmene un po’ sola in quei momenti lì, a pensare se avesse senso tutto questo o se, semplicemente, fosse arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e capire che questa storia era al capolinea.
Vedere la nonna, però, mi faceva stare sempre bene, anche in questi miei momenti di sconforto.

La raggiunsi a casa e la trovai seduta sulla vecchia sedia davanti alla finestra aperta che ricamava un pezzo di stoffa orlata.
“Che ti è successo?”, mi chiese senza neanche guardarmi in faccia. Mi accucciai accanto alle sue robuste gambe coperte in parte dal lungo grembiule con fiorellini azzurri e poggiai le mie mani sulle sue ginocchia sedendomi a terra.
“Abbiamo litigato… di nuovo”, dissi laconica. Lei sorrise vagamente e iniziò a sferruzzare più rapidamente.
“Non c’è motivo d’esser tristi”, mi disse poi. “Il tuo cuore non merita angosce”.

Le sorrisi e poggiai la testa sulle sue gambe chiudendo gli occhi e lasciandomi cullare dal vago movimento del suo corpo mentre continuava col ricamo.
“Stare con una persona è come rattoppare un buco dopo l’altro ai calzini che altrimenti non potresti indossare”, disse improvvisamente mentre ero ormai abituata al silenzio di quella stanza.
“Non puoi pensare di gettare i calzini ogni volta che trovi un piccolo buco né puoi credere di indossarli senza averli prima sistemati. E per sistemarli, un pochino almeno devi saper cucire”.

Io ero una frana con ago e filo. Credo nel senso figurato oltre che in quello pratico. Quell’ultima frase, però, mi aveva turbata. Ricucire, rattoppare, sistemare qualcosa prima di utilizzarla, averne cura senza sprecarla, erano tutte azioni che richiedono una buona dose di pazienza, di amore.

“Cosa credi?”, aggiunse poco dopo, “anche io e il nonno abbiamo litigato tanto. Non da fidanzati, però, da sposati. All’epoca quando si era fidanzati ci si vedeva poco, mai da soli e sempre per visite di circostanza. Magari andavo a casa dei suoi genitori per cucire con la madre oppure lui passava a casa la domenica pomeriggio per salutare la mia famiglia. Le passeggiate erano poche e sempre con qualche sorella o con mia madre. Tesoro della nonna, erano altri tempi. Per conoscersi, serviva il matrimonio”.

Tutto quel racconto mi incuriosì. Come potevano due persone così poco in confidenza, vista la rigidità di quei tempi, trovare poi un equilibrio in un matrimonio che durava ormai da cinquant’anni? Glielo chiesi di getto, convinta che per l’ennesima volta la sua risposta mi avrebbe fatto riflettere.

“Equilibrio? Non lo so, credo sia arrivato dopo tempo. Nascono i figli, le priorità cambiano, bisogna lavorare duramente per far campare la famiglia e gli screzi dei primi tempi vanno scemando. Vedi, amore della nonna, l’amore è costruzione. Ogni giorno metti un piccolo mattone, lavori col sole e con la pioggia, non fermi mai questa missione. Il lavoro non sarà sempre perfetto ma è anche vero che nessuna opera grandiosa nasce senza esperienza e sacrificio”.

Ecco l’ennesima lezione, forse anche più completa e tosta della precedente. L’amore significa ricucire, quindi, e costruire. Senza sosta. Mi sembrava che questi due verbi fossero la sintesi perfetta del suo saggio discorso.

In tutto quel tempo la nonna non aveva mai smesso di ricamare e non mi aveva mai guardata. Io, però, con la coda dell’occhio mi ero accorta che il mio cellulare aveva preso ad illuminarsi più e più volte, nel silenzio di una suoneria disattivata per non sentire nessuno. Nessuno che fosse lui.
Rimasi ancora un po’ di tempo in compagnia della nonna poi decisi di andar via mentre lei preparava la tavola per la cena. “Ma il nonno dov’è?”, le chiesi. “Ancora nell’orto. Poi torna, brontola perché ha fame e quasi mi si addormenta a tavola. Che pazienza!”.

Sorrisi. Era troppo bello saperli ancora insieme, così genuini, dopo tutti questi anni.

Camminando verso casa con la bellissima luce del crepuscolo a farmi compagnia come un’amica silenziosa e fedele, ebbi modo di schiarirmi le idee. Al di là dell’ennesimo furibondo litigio, io lo amavo e mai avrei voluto perderlo. Pensai a tutta la nostra storia, dai primi sorrisi al momento in cui mi chiese timidamente di uscire, dal primo bacio alla prima volta nella quale facemmo l’amore, dal primo litigio al primo “ti amo”. Tutte tappe così importanti, così nostre e così impresse nell’anima che niente avrebbe potuto distruggere un simile sentimento.

Sicuramente col tempo e la pazienza avremmo dovuto smussare gli angoli, trovare dei compromessi, evitare scenate ma quel che era assolutamente certo è che nulla, mai, sarebbe valso tanto quanto questo grande amore.
Fu una passeggiata rivelatrice, un momento di assoluta catarsi. Il discorso della nonna era stato uno sprono importante. Come sempre, il suo amore per me e la sua saggezza mi avevano aiutata a scegliere per il meglio.

Non feci in tempo a terminare quel pensiero che mi accorsi di essere arrivata sull’uscio di casa. Sentii un fruscio, come qualcosa che stava muovendosi nell’aiuola. Lo vidi comparire con un’espressione emozionata e speranzosa. Io ero completamente sorpresa di vederlo lì nonostante le telefonate alle quali non avevo risposto.

“Sono stato uno stupido”, esordì, ed io lo zittii con un lungo e bellissimo bacio che sancì inequivocabilmente la tregua.
“No, non mi basta questo”, disse poi lui sorridendomi. Rimasi lì a fissarlo perplessa senza proferir parola. Fu allora che il cuore mi balzò in gola.

Si inginocchiò davanti a me e disse: “non ha senso litigare se poi non posso cercarti per far pace mentre borbotti nell’altra stanza dicendo che sono uno stupido. Non ho più voglia di girarmi e rigirarmi nel letto senza sentirti vicina nella notte. Non mi interessa passare il sabato pomeriggio a poltrire in casa se tu non sei con me. Ho voglia di averti vicina, di svegliarmi con te, di litigare ancora con te, se necessario, ma anche di vederti madre e…moglie, mia moglie. Mi vuoi sposare?”.

Non credo si possa anche lontanamente tentare di raccontare la gioia di quell’istante. Fu la cosa più emozionante fino a quel momento vissuta in tutta la mia esistenza. Un muto sì con gli occhi pieni di lacrime diede inizio al nostro nuovo sogno.

E così, mattone dopo mattone, ero pronta ad iniziare il viaggio più entusiasmante mai fatto. Un viaggio senza valigia ma con ago e filo sempre a portata di mano.

Angela

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